La sua opera

Piegando la tecnica al perseguimento dell’idea che vuole raggiungere, considerando la macchina fotografica come parte del suo corpo (lui dice: come “prolungamento della mia idea”), Giacomelli applica la sua creatività a quelle che si potrebbero chiamare “vie di fuga dalla regola”, per arrivare a un utilizzo estremo della macchina fotografica, da lui successivamente modificata secondo precise esigenze, violata anche nell’uso, per cui essa diviene un meccanismo atto a decostruire il reale, o meglio a decostruire l’ideale comune di un reale statico.

La produzione fotografica ne risulta un sistema di continue mutazioni, un insieme di parti intercomunicanti, un sistema vivo: ogni serie realizzata non rappresenta affatto un capitolo ormai chiuso, perché il fotografo a più riprese ridefinisce le sue serie fotografiche, andando a riesumare certe immagini, parole di un discorso vecchio, per rivitalizzarle in un nuovo discorso, come per “dare respiro alle cose grazie a questo pretesto chiamato Fotografia”.

Nelle foto della maturità si fa strada un Giacomelli performer, e questo elemento è importantissimo nel percorso della sua produzione, una struttura altamente rituale i cui gesti ripetitivi assumono un valore simbolico, e in tale ritualità il discorso fotografico sortisce un effetto performativo. E dunque l’immagine fotografica, lungi dall’essere istantanea ripresa del contingente, accoglie ed emana una certa solennità, anche perché il significato che l’artista le attribuisce ha a che fare con una dimensione assoluta di un luogo senza tempo e quindi eterno, in cui immettere se stesso: la fotografia è il “pretesto” attraverso cui l’artista si vuole vedere inscritto nel mondo. E l’elemento dell’autoritratto che chiude il suo percorso artistico sembra essere il passaggio necessario di un lungo divenire, nella fusione tra atto e parola, tra vita e arte.

Il fotografo pro-duce l’immagine, nel senso etimologico che la porta fuori, se la tira fuori dalle viscere del suo vissuto per renderla a lui visibile, per questo lui stesso si definisce spettatore, e lo fa seguendo una struttura precisa, il suo metodo ritualizzato. È questo suo essere artefice-spettatore che rende Giacomelli contemporaneo: nell’abbandono dell’Oggetto, così come dell’intervento puramente soggettivo, l’artista si ritrova di fronte al suo operare creativo come di fronte a uno specchio.

È dunque chiaro che la fotografia di Giacomelli non c’è per dichiarare “questo è successo in un determinato luogo e tempo”, come accade per una fotografia di reportage, ma assorbe al suo interno soggetti/significanti presi unicamente per le loro interrelazioni: continuamente spostati (quando l’artista muove i suoi soggetti da una stampa all’altra attraverso la foto della foto e le sovrimpressioni, ottenendo immagini in cui soggetti del presente sono immessi in una scenografia del passato; o quando inserisce una vecchia foto in una nuova serie), modificati (in camera oscura l’artista cambia la materia della realtà), soggetti portati fuori dall’ancoraggio cronologico e storico (isolati dal loro contesto dai bianchi mangiati, resi bidimensionali dal flash usato di giorno o dal teleobiettivo, isolati con un taglio ravvicinato), per ricreare una rete, un continuum segnico e simbolico. Quanto più la fotografia non è chiamata a testimoniare, tanto più i soggetti fotografati possono muoversi al suo interno liberamente come puri significanti, il cui senso è dato dalle loro molteplici, ripetute, rimodellate, interrelazioni; ed è in questo che Giacomelli si avvicina all’Informale, o meglio è per questo che si può parlare di un metodo nella sua produzione fotografica.

Un metodo creativo che permette a Giacomelli di ricreare continuamente, in questa sua sistema(tizza)zione del corpus fotografico intero, se stesso nel suo nuovo rapporto con il Vuoto. Tant’è vero che alla fine del suo percorso, nel momento in cui egli stesso decide di entrare, con l’autoscatto, nello spazio della fotografia, questo non è che un luogo desolato, senza vita, senza più soggetti umani, con l’unica presenza di animali finti e case diroccate (in un’estremizzazione assoluta del soggetto/significante). Giacomelli dice di voler in questo modo mettere in scena un’operazione di rivitalizzazione dell’inanimato, dice di usare gli animali finti e le maschere per sottolineare la possibilità di animare qualcosa che sarebbe stato inanimato senza la fotografia. Cosa significa? Che l’artista si immette in uno scenario “magico” (più volte ha definito la fotografia in questi termini) in cui sia possibile superare (simbolicamente) ogni distanza, persino il limite della morte, dal momento che l’inanimato acquisisce un senso altro nel nuovo ordine ricreato dalla fotografia. È qui, nel luogo del vuoto, o dell’infinitamente ridefinibile, che il fotografo si avvicina talmente alla fotografia (lui che dice che fotografare è “entrare sotto la pelle del reale”) da entrare fisicamente egli stesso in essa, attraverso l’autoritratto, nella maturità.
(Katiuscia Biondi in Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale, Ed. 24 Ore Cultura 2011)

 

 

MARIO GIACOMELLI: FARE ARTE. AL DI LÀ DELLE LEGGI DI MERCATO

Considerato all’unanimità un Maestro della Fotografia. Nominato nel 1955 da Paolo Monti “L’uomo Nuovo della Fotografia”. Le sue foto sono presenti dal 1964 nella collezione permanente del Moma di New York e oggi conservate nei maggiori musei del mondo.
Giacomelli ha creato un suo proprio originale linguaggio fotografico: l’alto contrasto dei bianchi “mangiati” e dei neri “chiusi”, l’uso dello sfocato e del flash di giorno, della grana e del supporto scaduto e consumato, per un’immagine non ancorata al reale.
Il “godimento”, come lui chiama la soddisfazione nel gesto fotografico, non gli viene dal prelievo verista dell’oggetto, ma dal poter entrare, attraverso la fotografia, “sotto la pelle del reale”, là dove perdono potere i dettami dello stereotipo, nell’espressione libera dell’inconscio. Fotografia come creazione di uno spazio in cui attualizzare un rituale introspettivo, fino ad approdare nell’ambito dell’Astrattismo e della Poesia. Una performance creativa che dura un’intera vita, dove le singole foto diventano fotogrammi di un percorso continuo, elementi inscindibili di un Tutto, testimonianza viva di un contatto intimo tra l’artista e il mondo.

Mario Giacomelli, uomo di una finezza intellettuale al di là di ogni intellettualismo, il cui fascino proviene dal suo sguardo meravigliato sui più umili affari del quotidiano e dalla sua capacità alchimista di tramutare la materia della realtà, usa la macchina fotografica come una sorta di lente d’ingrandimento per avvicinarsi così tanto al reale da renderlo specchio di se stesso.
Sarà questa sua magia, questo suo esser faber, ad aver attirato per mezzo secolo nella sua Tipografia Marchigiana di Senigallia (cittadina da cui l’artista non si è mai allontanato) un mondo intero, fatto di artisti, fotografi, critici d’arte, galleristi, curatori, letterati, etc.

Artista notoriamente recalcitrante nei confronti delle leggi e delle strategie di mercato, Giacomelli non aveva l’abitudine né l’intenzione di firmare le sue opere una volta prodotte; le sue foto portano la firma a retro (raramente anche a recto) solo nei casi in cui queste siano uscite dal suo archivio in occasione di mostre, fiere, donazioni museali, o passate per le mani di galleristi, i quali erano loro stessi a richiederne la firma. Giacomelli non indicava il numero di tiratura e non specificava la data delle singole foto, datando invece la serie nella sua totalità.

È interessante rimarcare questo aspetto, per potervi oggi scorgere un innegabile segno di onestà intellettuale e di rara coerenza con la sua concezione della Fotografia: le fotografie erano concepite dall’artista come un tutt’uno indivisibile, e quello della Fotografia era uno spazio parallelo in cui riunificare i tempi (passato e presente) e da cui escludere la Mancanza. Perciò, per quelli che erano i suoi intenti creativi, gli risultava impossibile e inopportuno definire le singole foto attraverso sistemi numerici di divisione. Fermo restando che nella sua produzione c’è un ordine ben preciso: l’archivio è diviso per serie, con relativi provini e negativi, appunti di stampa, annotazioni dell’artista sulle datazioni delle serie, etc.
L’assenza di segnalazione della tiratura è perfettamente inscrivibile nel suo metodo creativo: per lui le fotografie devono essere poste nella condizione di avere un “nuovo respiro” – come dice lui –, rivivificate continuamente, e non possono essere gettate nel limbo delle cose fatte e fissate una volta per tutte, puri oggetti estetici da vendere.
Giacomelli si prendeva continuamente cura delle sue fotografie, per lui pseudo-organismi viventi (lo si capisce da come ne parla, spesso antropomorfizzandole), ponendole nell’humus della serie, e rivitalizzandole nel corso degli anni (per i particolari cfr. Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale, ed. 24OreCultura 2011), attraverso spostamenti e innesti che mettono in comunicazione tutte le foto tra loro.

“La fotografia non è il risultato di una cosa meccanica, ma è una cosa tua, proprio perché continua. Il mezzo meccanico blocca, ferma e basta, ma occorre capire che una volta scattato, non si è fatto nulla: l’orgasmo vero lo si ha dal momento che si sceglie l’immagine e la cosa prende vita da quel momento, comincia a respirare, e se non la si vuol far morire bisogna svilupparla in una determinata maniera, poi bisogna stampare (pensa che non ho nemmeno il termometro perché si deve anche poter sbagliare, e talvolta l’idea nuova sta proprio nell’errore), correggere, modificare, per tenerla in vita. E anche quando tutto sembra finito, non è finito proprio niente, perché solo con l’accostarla in una certa maniera, tutto quello che si è fatto prima è annullato per rivivere un’altra stagione”
(Mario Giacomelli, dalle sue annotazioni sulla Fotografia, anni ’90).

Il corpus fotografico di Mario Giacomelli è la testimonianza di un percorso ininterrotto di 50 anni, un percorso esistenziale che Giacomelli faceva in primis per se stesso, in una dimensione indistinta tra vita e arte.