Vita

Mario Giacomelli nasce il 1° agosto 1925 a Senigallia. A nove anni resta orfano di suo padre. La madre, lavandaia presso l’ospizio di Senigallia, fatica a mantenere i tre figli ancora piccoli. Mario era il più grande. A tredici anni diventa garzone presso la Tipografia Giunchedi dove resterà fino all’arrivo della guerra. Vi ritorna dopo aver partecipato ai lavori di ricostruzione dai bombardamenti post bellum, stavolta come operaio tipografo. Nel 1950 decide di aprire una tipografia tutta sua. A permettergli il gran passo, prestandogli tutti i suoi risparmi, sarà un’anziana dell’ospizio in cui la madre lavorava.
Nasce così la Tipografia Marchigiana via Mastai 5, che diverrà, negli anni, luogo di “peregrinaggio” da parte di artisti, critici, studiosi e appassionati di tutto il mondo.

Nel ’53 Giacomelli acquista una Bencini Comet S (CMF) modello del 1950, con ottica rientrante acromatica 1:11, pellicola 127, otturazione con tempi 1/50+B e sincro flash. Va in spiaggia e scatta le sue prime foto.
Da qui nasce L’approdo, la celebre fotografia della scarpa trasportata dalle onde sulla battigia, con cui partecipa a diversi concorsi fotoamatoriali e capisce, da subito, che vuole esprimersi attraverso il mezzo fotografico. Inizia a fotografare assiduamente Ritratti a parenti, colleghi e gente della sua cerchia amicale in pose e costruzioni iconografiche teatrali. È di questo periodo la famosa foto Mia Madre (ritratto alla madre con in mano una vanga). In quegli anni frequenta lo studio fotografico di Torcoletti e sarà questo – avendo intuito le grandi potenzialità espressive del giovane tipografo – a fargli incontrare Giuseppe Cavalli, artista e critico d’arte dal temperamento carismatico, che lo inizia alla riflessione sulla Fotografia e sull’Arte, introducendolo nell’ambiente dei grandi circoli fotografici dell’epoca, come la “Bussola” e la “Gondola”, nel cuore della riflessione sul ruolo della Fotografia nell’arte e nella società. Sotto la guida di Ferruccio Ferroni e con la supervisione dello stesso Cavalli, Giacomelli si addentra nella tecnica fotografica fino a trovare una sua propria sicurezza espressiva. È così che nel ’54 si costituisce ufficialmente il gruppo fotografico “Misa”. La strada verso la notorietà di Giacomelli è aperta invece dalla vittoria al prestigioso Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto nel ’55, dove Paolo Monti, nella giuria, denomina Giacomelli “l’uomo nuovo della Fotografia”.

È del 1955/60 la serie Nature morte, fotografie in bianco e nero, costruite con oggetti che l’artista trovava tra la casa e l’orto: tovaglie, frutta, bottiglie e arnesi vari, scattate nel giardino della sua casa.
Dal 1956/60 scatta foto di Nudi (donne e uomini della sua vita quotidiana); le foto non hanno nulla a che vedere con una contemplazione estetizzante del corpo femminile, racconta Giacomelli (A. C. Quintavalle, Mario Giacomelli, Feltrinelli 1980): “Il nudo mi è venuto in mente dall’ospizio. […] Ho stampata la foto [uomo in piedi e donna in primo piano, entrambi senza volto] più corta delle altre, la ho tenuta di meno nell’acido, più scura era di effetto, così c’era una poesia diversa”. Giacomelli negli anni ’90 amplia la serie inserendovi autoritratti di nudo.

Ben presto Giacomelli rifiuterà i severi precetti stilistici di Cavalli: avverte che i toni di grigio sono inappropriati a rappresentare quell’impeto e quel tragico che ritrovava invece nei suoi forti − e all’epoca sconvolgenti − contrasti di bianco e nero. Sono di questi anni le prime indagini sull’Ospizio e sui Paesaggi, che l’artista porterà avanti per i decenni a venire. Giacomelli continua a partecipare assiduamente ai concorsi fotoamatoriali anche dopo il raggiungimento della fama internazionale, ricevendo innumerevoli premi e riconoscimenti.

Risale al 1955 l’entrata in scena della mitica Kobell Press, obbiettivo Voigtlander color-heliar 1:3,5/105, la macchina fotografica da cui non si dividerà mai più e che andrà a manipolare personalizzandola. Nello stesso anno conosce Luigi Crocenzi, presentatogli da Giuseppe Cavalli. Nel ’56 Pietro Donzelli insiste, in una lettera inviata a Giacomelli, sulla necessità di strutturare la produzione fotografica in sequenze e racconti. Dello stesso stampo, l’insegnamento di Crocenzi. Sono di questo periodo serie dall’apparenza “reportagistica” (anche se in Giacomelli è sempre un azzardo chiamarle tali, visto l’alto grado evocativo e astrattizzante che distingue le sue foto), e nascono Lourdes (1957), Scanno (1957 e 1959), Puglia (1958, dove tornerà nel 1982), Zingari (1958), Loreto (1959, dove ritorna nel 1995), Un uomo, una donna, un amore (1960/61), Mattatoio (1960), Pretini (1961/63), La buona terra (1964/66).

Intanto Romeo Martinez (uno dei più importanti protagonisti dell’arte e dell’editoria del XX° secolo) gli apre la strada verso le pubblicazioni sulle riviste specializzate di Fotografia.

Continuando con la sua ricerca, il Giacomelli inizia a chiedere ai contadini, pagandoli, di creare con i loro trattori precisi segni sulla terra, agendo direttamente sul paesaggio da fotografare per poi accentuare tali segni nella stampa (anticipazione della Land Art americana degli anni ’60/70). Realizza che dalla realtà deve partire, come pretesto per ricercare, nelle sue forme, un senso nuovo che possa permettergli un avvicinamento estremo al reale attraverso la fotografia. Nasce Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1966/68) e seguono la stessa filosofia le serie da Favola, verso possibili significati interiori (1983/84) in poi, in un percorso creativo sempre più astratto.

Tramite Luigi Crocenzi, nel ’61 Elio Vittorini chiede a Giacomelli l’immagine Gente del sud (dalla serie Puglia) per la copertina dell’edizione inglese di Conversazione in Sicilia. Due anni più tardi Piero Racanicchi, che insieme a Turroni è stato tra i primi critici sostenitori dell’opera di Giacomelli, segnala il fotografo a John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York che nel ’64 acquisisce l’intera serie Scanno e alcune immagini della serie Pretini.

Mario Giacomelli crea la serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi nel 1966/68. Qui nel corso degli anni l’artista vi fa confluire scatti dal ’54 all’’83, foto prelevate da tutte le varie visite all’ospizio, come per creare “La Serie” ispirata a questo tema a lui estremamente caro perché lo collegava alle questioni della morte, della solitudine, e della vita, del rischio di disgregazione irreversibile, della distanza, e nello stesso tempo lo teneva vicino, nel cuore, alla figura della madre Libera, che aveva lavorato in quei luoghi come lavandaia, per mantenere i suoi tre figli piccoli dopo la morte prematura del marito. Così da fare di questa serie il grande sunto della sua idea sul tempo, sulla morte e sulla vita dell’uomo.
Il fatto di inserire variazioni di stampa da una serie all’altra corrisponde al modus operandi di Giacomelli, che annullava così la distanza tra passato e presente, creando un corpus fotografico in continua metamorfosi, un’enorme Unità piena di rimandi, distruzioni e ricostruzioni: un organismo vivente.

Dalla prima visita all’ospizio del 1954/56 nasce Vita d’ospizio. Nel 1966/68 compone la serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Torna a fotografare l’ospizio nel 1981 creando le serie Ospizio Non fatemi domande. Nel 1981 compone La zia di Franco con gli scatti del ’55. Nell’’85/87 la serie Ninna nanna -ispirata alla poesia di Leonie Adams – con foto dal ’55 all’83. E nel 1993, sempre rielaborando scatti degli anni ’50, nasce il racconto fotografico E io ti vidi fanciulla.

Dagli anni ’60 a metà ’90 crea serie a colori (Paesaggi, Nature morte, Astratte, Al molo) in modo sperimentale ed eccezionale rispetto alla mole della sua produzione in bianco e nero.

Sotto l’influsso di Crocenzi, nel ’67 Giacomelli pensa alla realizzazione di una serie fotografica incentrata sul racconto, interpretando Caroline Branson da Spoon River Antology di Edgar Lee Masters, e chiede a Crocenzi di fornirgli un canovaccio da seguire. La serie sarebbe dovuta essere destinata alla televisione, ma quello che ne sarebbe dovuto sortire è un risultato che Giacomelli non trova nelle sue corde, quindi il progetto decade, ma la serie viene comunque ultimata nel ’73, completamente stravolta, e qui compaiono per la prima volta in modo massiccio le sovrimpressioni, espediente stilistico che Giacomelli riprenderà in tutta la produzione a venire.
Nel 1966 conosce Alberto Burri, con cui instaura un’amicizia profonda e a cui dedicherà delle opere di Paesaggi dove forte è il richiamo all’Informale e alla poetica dell’artista. L’informale, in effetti, affascina Giacomelli tanto che, dalla fine degli anni ’50 fino agli anni ’70, crea egli stesso centinaia di opere pittoriche; e negli anni Sessanta faceva parte del gruppo artistico senigalliese in cui ci si confrontava sull’arte e sull’astrattismo, gruppo creatosi attorno alla figura del corniciaio Mario Angelini in via Arsilli, in cui si riunivano pittori e scultori come Marinelli, Ciacci, Donati, Gatti, Genovali, Bonazza, Mandolini, Moroni, Sabbatini.

In realtà, vediamo che l’intera opera giacomelliana nasce e si sviluppa secondo direttive concettuali e metodologiche prossime all’Informale, prima fra tutte il considerare ogni singolo elemento, ogni fotografia, non come un prodotto finito, un oggetto chiuso in sé secondo criteri di perfezione formale, ma parte di un tutto (l’intero corpus fotografico), un tutto in divenire che prende senso e forma e vitalità proprio dalle interrelazioni dei singoli elementi che lo compongono: l’opera giacomelliana è un complesso sistema, un organismo che si nutre del suo stesso movimento, e Giacomelli revisiona continuamente le serie fotografiche mettendole in comunicazione tra loro, sia iconograficamente (con rimandi simbolici che si ripetono nei decenni), sia con interventi su di esse tanto da fondere fotografie di una vecchia serie (attraverso la sovrimpressione) con scatti per una nuova, sia inserendo delle variazioni di stampa da una serie all’altra o anche alimentando nel corso degli anni una vecchia serie con l’aggiunta di nuove fotografie prese da una sorta di serbatoio, Per poesie (anni ’60/anni ’90), un ammasso di scatti archiviati proprio a questo scopo. Un altro aspetto, non meno importante, che lega Giacomelli all’ottica informale è che protagonista della sua arte è sempre la materia. L’indagine fotografica gravita tutta intorno alla materia.
Nel ’78 partecipa alla Biennale di Venezia con fotografie di Paesaggi. Nel 1980 Arturo Carlo Quintavalle scrive un libro analitico (Mario Giacomelli, Feltrinelli, Milano 1980) su tutta l’opera del fotografo, acquisendo una buona quantità di sue opere per il centro CSAC di Parma.

L’astrattismo si ritrova esplosivo nella serie Favola, verso possibili significati interiori del 1983/84. Data in cui conosce il poeta Francesco Permunian con il quale instaura una collaborazione che dà alla luce le serie Il teatro della neve (1984/86) e Ho la testa piena mamma (1985/87). Da qui fino alla fine, Giacomelli crea serie fotografiche lasciandosi ispirare da testi poetici: nel 1984/85 crea Il canto dei nuovi emigranti (Franco Costabile), nel 1986/92 Felicità raggiunta si cammina (Eugenio Montale), nel 1986/88 L’infinito (Giacomo Leopardi), nel 1986/90 Passato (Vincenzo Cardarelli), nel 1987/88 compone A Silvia (Giacomo Leopardi, serie iniziata sotto l’influenza di Crocenzi nel ’64, e ripresa poi nel 1988 con un approccio decisamente più consapevole sulla relazione tra testo poetico e immagini fotografiche); nel 1992/94 Io sono nessuno (Emily Dickinson), nel 1994/95 La notte lava la mente (Mario Luzi), nel 1997/99 Bando (Sergio Corazzini), nel 1998/2000 La mia vita intera (Jorge Luis Borges); e in un secondo momento cambia il titolo delle serie dell’Ospizio con titoli di poesie (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1954/83) di Cesare Pavese, e Ninna Nanna (1985/87) di Leonie Adams), e dei Pretini (Io non ho mani che mi accarezzino il volto da una poesia di Padre David Maria Turoldo).

Nel 1983/87 crea Il mare dei miei racconti fotografie aeree scattate alla spiaggia adriatica nei pressi di Senigallia. Giacomelli ha sempre fotografato il mare e la spiaggia, basti pensare che è proprio da lì che è partito con la sua prima foto L’approdo, e lì ha finito con l’ultima serie La domenica prima. E le foto alle colonie estive degli anni ’60, Il mare (’60/’90) e tutte quelle scattate dagli anni ’70 agli anni ‘90, creando la serie Le mie Marche (a Marina di Montemarciano), Al molo (molo di Senigallia), Marotta il mare (a Marotta), Il mare di Fano (a Fano), Storie di mare (spiaggia di Senigallia), La Rotonda (Rotonda a mare di Senigallia).

Nel 1986 muore la madre, e per l’artista è un trauma fortissimo che segna un mutamento nella sua produzione fotografica verso un sempre più esplicito dato autobiografico. Ormai la sua notorietà si è espansa a livello internazionale e nel mondo le sue opere sono richieste dai più prestigiosi musei d’arte, mentre la sua ricerca si fa sempre più introspettiva, intimistica e votata al Vuoto, chiuso nel suo territorio marchigiano a fotografare il paesaggio come possibile luogo di ritrovamento di se stesso. Le serie Vita del pittore Bastari del 1992/93, gli Autoritratti (Anni ’80/90) e i muri corrosi di Per Poesie Poesie in cerca d’autore (’90), le fotografie “astratte” di Bando (’97/99), 31 Dicembre (1997), sono ormai scenari completamente costruiti da un Giacomelli che usa la fotografia come fotogrammi di un film lungo un’intera vita.

In questi anni della maturità, Giacomelli frequenta assiduamente certi luoghi, sempre gli stessi, nella campagna collinare di Senigallia per scattare foto che sono una sorta di appunti di un percorso intimo dell’artista con se stesso, frammenti di un discorso in cui Giacomelli chiedeva alla fotografia di dare vita a scenari fuori dalla quotidianità alienante, per accedere al suo vero mondo fantasmagorico, in cui cercare se stesso. Ne deriva una quantità di foto intimistiche e autobiografiche di grande spessore. Gli archivi Mario Giacomelli ne conservano le serie Bucci, OtelloCremoniniPolverariFerri (Per poesie) (i titoli prendono semplicemente i nomi dei proprietari dei casolari e degli appezzamenti di terreno in cui l’artista si appoggiava per fotografare). Nascono dalla stessa intenzione introspettiva le serie I ricordi di un ragazzo del ’25 (1999), che si sviluppa nel 2000 in Questo ricordo lo vorrei raccontare (titolo che esprime il desiderio di superare attraverso la fotografia la morte, sopraggiunta nel novembre del 2000), Ritorno (1999/2000), la serie ispirata all’omonima poesia di Giorgio Caproni, Così come la morte (1999).

Negli anni ’90 l’irrequietezza di trovare poesia nella vita e per la vita, lo spingono ad avventurarsi nello spazio astratto di Territorio del linguaggio (1994), e delle foto Astratte e Tavole astratte (anni ’90), di Polverari e Bando. (1997/99).

Interessante seguire il suo percorso esistenziale attraverso la sua produzione fotografica, in una totale fusione tra vita e arte, in una visione della fotografia come strumento per poter entrare sotto la pelle del reale, per scoprire che non c’è netta distanza tra il mondo e il soggetto che lo guarda.
Mario Giacomelli muore il 25 novembre 2000 dopo un anno di malattia, lavorando fino all’ultimo alle sue fotografie, nella creazione delle serie: Questo ricordo lo vorrei raccontare (2000), La domenica Prima (2000).

In tutto questo scorrere di una vita, Giacomelli non ha mai smesso di fotografare il paesaggio, i campi e le colline della terra intorno a Senigallia, luoghi che l’artista conosceva come la sua immagine riflessa allo specchio e da qui nascono diverse serie: Paesaggi (dal 1954/anni ’60), fotografati dal basso, nostalgici e poetici; Memorie di una realtà (1956/68), la casa colonica rettangolare in cima alla collina ripresa dal basso (a San Silvestro, frazione di Senigallia); Metamorfosi della terra, foto scattate in prevalenza sulle colline di Arcevia (comune tra Senigallia e Sassoferrato) e di Sant’Angelo (frazione di Senigallia) (dal ’55 al ’68), e a Montelago (frazione di Sassoferrato) e al Vallone (frazione di Senigallia) (dal ’60 all’’80): è il paesaggio fotografato dalla collina di fronte, il che fa sembrare che la terra sia ripresa a volo di uccello. Giacomelli inizia da qui a cercare i segni, le graffiature, e contrasta e sovraespone per aggiungere zone nere e così decontestualizzare e astrarre il paesaggio a una dimensione cosmica. Sono di questa serie anche le foto alla casa colonica quadrata ripresa nelle diverse stagioni, anni e colture, in cima alla collina; Storie di terra (o La terra che muore) (1956/80), una casa colonica ripresa più o meno sempre al centro della foto, in lontananza tra i campi coltivati che negli anni mutano morfologia con il cambiare delle tecniche agricole. La casa resta sempre la stessa e tutto intorno si modifica verso la distruzione: nelle foto degli anni ’50/60 sono presenti i covoni e un’alta varietà di colture che creano le geometrie e i segni che Giacomelli cercava, ma che sono destinati a diradarsi fino a scomparire con il trascorrere degli anni. Alla fine degli anni ’60, ma soprattutto negli anni ’70/80, il terreno inizia a crollare, nelle foto sono evidenti le crepe e gli slittamenti dovuti al sopraggiungere dell’agricoltura intensiva e alla fine della cura del contadino verso la terra. Poi ci sono i Paesaggi dall’alto (viaggio per Bilbao, 1975): Giacomelli è in volo verso la Spagna perché chiamato a far parte della giuria di un premio fotografico, e da qui arriva l’idea di elevarsi per guardare da un’altra prospettiva. Da qui nasce Presa di coscienza sulla natura (1976/ anni ’90), i paesaggi aerei ripresi da un aereo Piper: nell’alto contrasto delle foto di questo periodo (‘76/anni ’80) e nella focale importanza dei segni, dell’astrazione e dell’essenzializzazione delle forme, resta sempre importante per l’artista (come si evince dai suoi appunti sui provini) mantenere la materia brulicante. Negli anni ’90 i paesaggi aerei sono meno contrastati e con meno segni, più omogeneo lo spazio, più distaccato lo sguardo: l’agricoltura intensiva ha ormai modificato inesorabilmente il paesaggio.